Trattato di Roma: cambiar passo all’integrazione

-di Klaus Haesch*-

Il trattato di Roma nacque in un momento di profonda crisi. Dopo i tentativi falliti di un’unione militare (EDC) e un’unione politica (CPE), il trattato indicò l’economia come tema centrale dell’unificazione europea.

Le politiche sociali erano all’epoca solo un cerotto per coprire le cicatrici causate dai mercati. Prima del 2009 non si è parlato di una economia sociale di mercato. Il trattato ancora non menzionava la giustizia redistributiva; non vi si faceva riferimento né relativamente al rapporto tra tra ricchi e poveri all’interno di una società, né in relazione agli Stati membri. Tuttavia, essendo l’obiettivo dell’Unione, al pari di ogni altra istituzione politica, quello di garantire la stabilità, di conseguenza non si poteva consentire che che le disuguaglianze diventassero eccessivamente evidenti.

Per i governi, il Trattato CEE si trasformò nell’atto che li abilitava a legiferare su materie comuni. La democrazia parlamentare in sostanza funzionava soltanto negli Stati membri. Solo a partire dalle elezioni del 1979 è stata riconosciuta al Parlamento europeo un’ampia legittimità. E solo a partire dal 2009 sono state definite appropriate competenze legislative. Con la progressiva revisione dei trattati, l’Unione è diventata la prima democrazia transnazionale al mondo.

Accusando Bruxelles

Ma questo lento e progressivo processo non ha sicuramente accresciuto tra i cittadini delle diverse nazioni, l’accettazione delle istituzioni parlamentari comunitarie. Molti, infatti, all’interno degli stati-membri ritengono che la democrazia sia minacciata in maggior misura dai governi democraticamente eletti a Bruxelles piuttosto che da un gruppo auto-proclamato composto da un centinaio di banchieri arroganti che giocano a “Monopoli” a New York, Londra e Singapore. Molti di coloro che ritengono di dover difendere la sovranità delle proprie democrazie nazionali contro “Bruxelles”, non si rendono conto del rischio di cedere le loro prerogative e le scelte elettorali agli algoritmi dei sistemi big-data privati internazionali e ai servizi segreti alleati e nemici. Sono questi attacchi alla democrazia stessa che i democratici europei devono combattere.

Nei Trattati di Roma mancava qualsiasi riferimento alla politica estera comune. L’Europa occidentale durante la Guerra Fredda si è mossa sulla scia degli Stati Uniti. L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Usa rappresenta, negli ultimi dieci anni, il terzo momento di una serie di rilevanti innovazioni avvenute nel contesto geopolitico continentale. “Rendere l’America di nuovo grande” è la versione trumpiana delle ambizioni di Vladimir Putin che evoca una “Grande Russia” e, infine, delle aspirazioni di Xi Jinping che per la Cina sogna la costruzione di una “Asian-Pacific-Area” come porta del mondo. Tutti e tre sono guidati da pulsioni interne autoritarie. Ogni “accordo” tra di loro punterà a stabilire delle sfere di influenza per trascinare l’Europa da una parte o dall’altra a meno che l’Unione non decida finalmente di muoversi avendo chiari gli interessi comuni da difendere nella propria azione.

Garantire nel mondo la pace e la libertà, la democrazia, la giustizia, la sicurezza e il secolarismo e trasmettere intatte queste conquiste alle generazioni future, è l’eredità e la missione del processo di unificazione europea. Abbiamo bisogno di una causa che vada oltre l’economia e la gestione del potere. Bisognerebbe impegnarsi per essere qualcosa di più di un grande mercato all’interno del quale svaniscono giustizia, casa comune e governo. Brexit diventerà una crisi definitiva se l’Unione non riuscirà ad assumere una posizione chiara sul tema dello stare “dentro” e dello stare “fuori” e se altri anni di comportamenti egoistici continueranno a portare la costruzione europea sempre più in basso nella considerazione dei suoi cittadini.

Non c’è bisogno di nuovi trattati

Il declassamento dell’Unione europea in un mercato senza regole comuni sul fronte delle questioni sociali, della protezione dell’ambiente e dei consumatori, in altre aree la renderebbe più irrilevante, non più attraente. I cittadini non sono particolarmente interessati a nuovi trattati e ne hanno tutte le ragioni; se gli Stati membri applicassero in maniera soddisfacente il trattato già esistente, l’Europa sarebbe in grado di rilanciare l’anemica crescita economica del fianco meridionale, sarebbe in grado di prevenire le tragedie delle migrazioni nel Mar Mediterraneo, avrebbe gli strumenti per prosciugare i paradisi fiscali e ristabilire una equità redistributiva in tutto il continente, sarebbe capace di migliorare i livelli di sicurezza rafforzando la cooperazione interna e internazionale e potrebbe liberare l’Unione dalle paure e dalle gelosie nazionali.

Dopo sessant’anni sta tornando il nazionalismo? Non è mai scomparso. Perché alla resa dei conti, l’Unione non è piovuta da un altro pianeta. È stata fondata da Stati nazionali che l’hanno costruita esattamente come è oggi. Nessuno dei grandi protagonisti dell’unificazione ha lavorato per una vera rimozione delle costituzioni nazionali e della rispettive sovranità. Pensavano a livello nazionale pur lavorando all’avanzamento dell’unificazione e hanno continuato a mantenere quella mentalità.

A quel tempo, tuttavia, il concetto di “nazionale” si trasformò in un atto di coraggio che consentì un nuovo e pragmatico inizio, la riconciliazione e la cooperazione tra i popoli e gli stati d’Europa. Oggi il nuovo sentimento nazionalistico si caratterizza come un atto di viltà contro la fatica della comprensione e del compromesso e si alimenta con la rabbia e il risentimento contro tutto quello che è stato creato. La Francia rischia di costruire la sua massa critica come accadde con il nazionalsocialismo e di creare le condizioni per la rottura dell’Unione.

L’obiettivo dell’Europa era quello di liberarsi dal rischio della guerra. Nessuno aveva promesso un’Europa senza crisi. L’unificazione europea costruita sul trattato di Roma e che si è sviluppata passo dopo passo in questi ultimi sessant’anni, ha dimostrato dal 1957 ad oggi una sorprendente stabilità. È riuscita a superare le crisi legate al processo di unificazione e le “Euro-sclerosi”, ha gestito le conseguenze politiche delle rivoluzioni pacifiche esplose nell’Europa orientale, compresa la riunificazione della Germania, ed ha metabolizzato l’ allargamento dell’UE da 6 a 28 (meno uno) stati. Ha plasmato la cultura politica in Europa, più profondamente di quanto non venga generalmente riconosciuto, come dimostrano le reazioni ai rischi che attualmente caratterizzano la Polonia, l’Ungheria e la Romania. Mentre le Cassandre della politica, della scienza e della cultura evocano la prospettiva del crepuscolo e del declino, cerchiamo un barlume di speranza all’ombra delle grandi sfide interne e internazionali.

Post pubblicato su Progressive Post magazine della Feps il 14 marzo 2017 (www.progressivepost.ue)

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