Riforma Costituzionale (2): il governo

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“Questa riforma non tocca minimamente il sistema dei poteri del premier, del controllo e delle garanzie”. Partiamo da questa dichiarazione del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per analizzare uno dei punti più controversi della riforma costituzionale che, tra metà novembre e inizio dicembre (quando di preciso ancora non è dato saperlo) sarà sottoposta alla consultazione referendaria. Il Capo del Governo, infatti, in risposta a coloro che scorgono la minaccia di una nettissima preminenza dell’esecutivo in rapporto agli altri poteri dello Stato, non ha mai smesso di ripetere che non c’è nessun pericolo del genere, perché il potere esecutivo non viene toccato dalla modifica del dettato costituzionale. Ed effettivamente, guardando solo al testo, il Governo viene soltanto, e inevitabilmente, sfiorato dall’abbandono del bicameralismo perfetto e dalla conseguente attribuzione del rapporto di fiducia esclusivamente alla Camera dei deputati, che, sola, in caso di vittoria del “Sì”, potrà dare o revocare la fiducia stessa.

Per il resto, tutto rimarrebbe come prima, con il Presidente della Repubblica che, in seguito alle consultazioni, darebbe l’incarico di formare il Governo e quest’ultimo che si presenterebbe poi a Montecitorio per ottenere la fiducia: parlamentarismo allo stato puro.

Tuttavia, il fatto che il testo non sia cambiato poi di molto sul punto, non vuol dire che dietro la riforma non ci sia il rischio di un eccessivo rafforzamento dei poteri del Capo del Governo e di uno scivolamento sostanziale, pur nel formale rispetto del dettato costituzionale, verso una sorta di premierato forte, con il Presidente del Consiglio nel ruolo di dominus del procedimento legislativo e di molto altro.

Tutto questo soprattutto perché, nonostante le rassicurazioni dispensate anche in questo caso da Renzi e Boschi, la riforma costituzionale non può essere letta indipendentemente dalla legge elettorale, dall’Italicum, che, in assenza di modifiche parlamentari e in attesa del pronunciamento della Consulta sulla costituzionalità di alcune sue parti (pronunciamento che peraltro potrebbe arrivare non più il 4 ottobre, ma dopo il referendum), al momento è il principale responsabile del rischio di “premierizzazione” del nostro sistema parlamentare. Questo perché si tratta di una legge fortemente maggioritaria, che concede la maggioranza assoluta dei seggi al partito che ottenga almeno il 40% dei voti o, nel caso in cui questa condizione non si verifichi, alla forza politica che, in occasione del secondo turno di scrutinio (al quale accederebbero le due liste più votate), consegua il maggior numero di suffragi.

Presumibilmente quest’ultimo caso, soprattutto in un sistema ormai tripolare come il nostro, sarà quello più frequente e il ballottaggio, con ogni probabilità, si trasformerà nel duello tra i candidati premier, con una personalizzazione del confronto spinta al massimo grado e le successive consultazioni del Capo dello Stato ridotte a mera formalità. Ma non è neanche tanto questo il punto, perché la progressiva personalizzazione della politica non è certo una novità, né una conseguenza della nuova legge elettorale. Il punto vero sta nel rischio di una maggioranza parlamentare scarsamente autonoma e strettamente dipendente dall’esecutivo e, in particolare dal Presidente del Consiglio, in un contesto nel quale la Camera dei deputati, vista la trasformazione del Senato, resterebbe l’unica camera politica e, come abbiamo visto, l’unica titolare del rapporto fiduciario con il Governo. 340 seggi saranno appannaggio di un solo partito.

Ma non basta, perché la previsione dei capilista bloccati, con la possibilità che questi ultimi vengano candidati in più collegi (fino ad un massimo di dieci) e la conseguenza che i capilista stessi dovranno, ad elezione avvenuta, optare per uno di quei collegi, permetterà un notevole controllo da parte della segreteria dei partiti (e del candidato premier) sulle candidature e su coloro che riusciranno eletti (è, peraltro, quello delle candidature multiple e della successiva opzione da parte dei capilista, uno dei punti sottoposti a giudizio di legittimità della Corte Costituzionale). La fedeltà rischia di essere preferita alla capacità e all’autonomia e, se certamente una maggioranza compatta è in molti casi desiderabile, una troppo fedele rischia di abdicare alla titolarità della funzione legislativa in favore di un Governo che, tra l’altro, oltre che sui decreti legge e sui decreti delegati, tra i tanti nuovi procedimenti legislativi introdotti dalla riforma, potrebbe contare anche su una nuova corsia preferenziale per i disegni di legge considerati essenziali per l’attuazione del programma.
E, in un Parlamento siffatto, anche le possibilità per le opposizioni di far sentire la propria voce si ridurrebbero notevolmente.

Ma non è finita qui, perché, attraverso il rigido controllo della Camera del quale potrebbe godere, il Governo potrebbe finire per avere un’influenza superiore rispetto a quella attuale anche sulle istituzioni di garanzia, a cominciare dal Capo dello Stato, la cui nomina spetterebbe sempre al Parlamento in seduta comune. Tuttavia, se passasse la riforma, quel plenum si comporrebbe dei 630 deputati e dei 100 componenti del nuovo Senato (verrebbero eliminati i delegati regionali), con una soverchiante superiorità numerica della Camera dei deputati e della sua maggioranza. Pur essendo state introdotte, nel corso dell’iter della riforma, quorum più elevati rispetto a quelli attuali per l’elezione del Presidente della Repubblica (due terzi dell’assemblea fino al terzo scrutinio, tre quinti dal quarto e sempre tre quinti, ma dei votanti, dal sesto in poi), il pericolo che il Governo, soprattutto in presenza di una composizione ad esso particolarmente favorevole del Senato, abbia in tutto questo processo un peso ancor maggiore di quello che è già arrivato ad avere, con grave pregiudizio della funzione di imparziale garante della Costituzione del Capo dello Stato, non può essere trascurato.

Ovviamente, non è detto che tutti questi rischi si trasformino necessariamente in realtà (e soprattutto per quanto riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica va detto che anche solo dal punto di vista aritmetico non è facilissimo che ciò avvenga) e il pratico funzionamento del sistema, in caso di vittoria del “Sì”, potrebbe scongiurarli uno ad uno. Di sicuro, però, il nuovo dettato costituzionale, soprattutto se associato all’Italicum nella sua attuale formulazione, avrebbe molti meno anticorpi contro la prepotenza di un ipotetico esecutivo poco rispettoso della separazione dei poteri e della pratica democratica. Starà agli Italiani valutare se varrà la pena anche solo correre quei rischi.

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