Terrorismo, il “crociato” Salvini e la lezione di Guido Rossa

Rossa

-di ANTONIO MAGLIE-

Con l’equilibrio che si addice a un campione di tolleranza, Matteo Salvini ha commentato così su Facebook gli sviluppi delle indagini italiane sugli islamici radicalizzati: “ Un siriano arrestato, tre imam indagati, un pakistano espulso. Ma quante belle persone stiamo ospitando in Italia… Ne rimangono da espellere altri 500.000, e siamo tranquilli”. Sarà un caso, ma questi risultati sono stati ottenuti dopo la domenica in cui per la prima volta si è avuta in Italia (e in Francia) una risposta corale al terrorismo, con ventitremila musulmani che hanno deciso di manifestare la loro solidarietà nei confronti dei cattolici e, contemporaneamente, la loro distanza da chi ammazza in nome di Allah, varcando i portoni delle chiese della penisola. Un fatto straordinario che sottolinea la validità di un metodo sostenuto da Papa Francesco e poco apprezzato dal nostro “piccolo crociato” con le insegne di Alberto da Giussano.

E, d’altro canto, questo Pontefice a quelli come Salvini non piace: lui preferisce il discorso pronunciato da Ratzinger a Ratisbona, che venne da molti (anche dai diretti interessati) interpretato in chiave anti-islamica. Come tutte le cose, quell’intervento è datato e non può essere trasformato, a dieci anni di distanza, in una sorta di manifesto ideologico perché col tempo le situazioni sono diventato molto più complicate, i teatri di guerra si sono moltiplicati e il terreno in cui far crescere il radicalismo appare decisamente più concimato. Ratisbona è lontana mentre sono contemporanee le guerre in Siria, in Iraq, il ritorno prepotente dei talebani in Afghanistan, l’atomizzazione della Libia ancora divisa tra il governo di al-Sarraj e quello di Tobruk. Papa Francesco si sforza di tenere separate le ragioni della politica (che sono alla base delle guerre insieme a quelle economiche) da quelle della religione. Lo dice con molta chiarezza Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiano, uomo molto vicino al Papa: “Non cadiamo nella trappola della guerra di religione tesa da fanatici che intendono provocare e giustificare uno scontro di civiltà”. E aggiunge, forse pensando anche a Salvini: “Il Papa non indulge ad alcuna forma di buonismo nonostante tra noi non manchi chi lo accusa di cecità, pretendendo addirittura di ‘suonargli la sveglia”

In realtà una sveglia è suonata con la morte di Jacques Hamel e quel suono ha portato a quel primo segnale di solidarietà e di unità (che da temporanea si deve trasformare in definitiva) rappresentato dai musulmani nelle chiese. Ovviamente, nessuno si deve convertire, né chi non crede e guarda al mondo con occhi profondamente laici deve abbracciare una delle religioni in campo per sentirsi dalla parte giusta. Si tratta, invece, di costruire un nuovo “contratto civile”. Ecco perché vale la pena ricordare una vicenda che risale a trentasette anni fa: Salvini aveva sei anni e dubitiamo che se la sia fatta raccontare da qualcuno. E, allora, proviamo noi a ricordarla perché ciò che è avvenuto dopo la morte di Jacques Hamel, avvenne anche allora. Certo, in forme e ambiti diversi. Ma quella storia ormai vecchia ci spiega che per costruire un nuovo “contratto civile” in primo luogo bisogna aprire gli occhi e, in secondo luogo, bisogna provare a costruire il più ampio consenso possibile intorno a una idea di società, in sostanza l’esatto contrario delle espulsioni di massa invocate da Salvini perché quelle portano a Guantanamo o, peggio, ancora ad Auschwitz.

Il 24 gennaio del 1979 un commando delle Brigate Rosse composto da Riccardo Dura, Vincenzo Guagliardo e Lorenzo Carpi, si appostò sotto l’abitazione di un operaio dell’Italsider, membro del consiglio di Fabbrica, iscritto alla Flm (Federazione Lavoratori Metalmeccanici), Guido Rossa. Lo ammazzarono e con il solito volantino rivendicarono l’attentato, il primo contro un lavoratore, cioè contro l’esponente di quella classe che loro, i brigatisti, ritenevano di difendere a colpi di mitragliette skorpion. Rossa ai loro occhi aveva una colpa: aver denunciato un operaio, Francesco Berardi; insomma, aver parlato, mentre altri due compagni di lavoro avevano preferito tacere. Ovviamente aveva ragione: Berardi girava per l’impianto siderurgico con le tasche gonfie di volantini, normalmente le lasciava accanto al distributore automatico dei caffè. Sulla base della denuncia di Rossa, l’armadietto di Berardi venne aperto e quando la sicurezza lo fermò all’uscita dalla fabbrica in un nanosecondo si dichiarò “prigioniero politico”.

La storia del terrorismo brigatista cambiò quella mattina di gennaio. Spesso lo racconta uno che quegli anni li visse, Giorgio Benvenuto, all’epoca segretario della Uil: “L’omicidio di Rossa eliminò le complicità in fabbrica, tolse l’acqua ai pesci”. Qualche mese dopo quell’assassinio, dopo sessantuno lettere di licenziamento inviate dalla Fiat ad altrettanti operai accusati dall’azienda di essere contigui ai gruppi terroristici (in realtà, le accuse non vennero mai provate), Giorgio Amendola scrisse su “Rinascita”: “Oggi si rivelano apertamente fatti prima tenuti nascosti e che avrebbero dovuto essere denunciati dal primo momento. Le intimidazioni, le minacce, il dileggio, le macabre manifestazioni con le casse da morto e i capi-reparto trascinati a calci in prima fila ricordano troppo le violenze fasciste per non suscitare uno sdegno e un disgusto che invece non si è manifestato”.

Domenica scorsa, per la prima volta, quello sdegno e quel disgusto che trentasette anni fa evocava il dirigente comunista, è emerso con chiarezza nel comportamento di quei ventitremila musulmani. Il terrorismo, come ha detto uno che di queste cose se ne intende avendo visto cadere molti suoi colleghi e amici sotto i colpi dei brigatisti, il procuratore di Torino, Armando Spataro, si batte con la prevenzione, con la repressione ma soprattutto creando un ambiente sfavorevole. Un ambiente che in quegli anni fu costruito anche in Italia, riuscendo a recuperare anche molti di quei giovani insoddisfatti della società dell’epoca (ve ne erano tanti anche allora) che si identificavano nello slogan “né con lo Stato né con le Br”. 

Non si tratta di chiudere il mondo fuori dalla nostra porta ma di provarlo ad adattare alle condizioni e alle dimensioni della nostra casa; non si tratta di espellere cinquecentomila persone ma di provare a costruire una società in cui almeno quattrocentonovantanovemila si sentano parte di un tutto isolando quei mille che il tutto, invece, vogliono distruggere. Anche perché possiamo pure espellere un milione di persone ma alla fine qualcosa ci sfuggirà sempre: l’unico Foreign Fighters morto in battaglia era italiano, non era un immigrato. Non è con un processo di separazione che potremo garantirci la sicurezza, ma con un progetto di integrazione e di condivisione dei valori che danno un senso compiuto a una collettività. Con il suo sacrificio Guido Rossa ci ha insegnato questo. E lo stesso insegnamento ci è venuto da Rouen, da Jacques Hamel. Se riusciremo a trarre da quella vecchia lezione un insegnamento, probabilmente riusciremo a togliere un po’ d’acqua anche a questi nuovi pesci.

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