Globali ma non come vuole Bill Gates

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-di ANTONIO MAGLIE-

Bill Gates uno a cui la vita sorride sempre (tanto a piangere pensano altri), assicura in una intervista che la globalizzazione andrà avanti perché non si può fermare la modernità. La sua profezia fa seguito a quella dei cosiddetti analisti (che come diceva un vecchio saggio, al pari degli economisti dovrebbero illustrare il presente e predire il futuro mentre normalmente illustrano il futuro e, quando ci riescono, predicono il presente) che subito dopo il voto inglese hanno sentenziato: è finita la globalizzazione. Insomma, mezzo mondo finanziario è a lutto con coro di prefiche al seguito e l’altra metà, invece, è pronta a stappare bottiglie di champagne nella convinzione che la festa non sia finita, anzi, come cantava Rino Gaetano, con la notte cominci la vita.

Forse bisogna cominciare a fare chiarezza. A partire dal significato del sostantivo. Di cosa parliamo? Di un mondo con confini più sottili, in cui le culture si contaminano in maniera benefica, sterilizzando i rischi legati al nazionalismo e ai suoi aspetti accessori come gli eccessi razziali e xenofobi? Se si tratta di questo, allora in pochi (Salvini, Le Pen, Wilders, Farage, Trump) possono essere felici per il ritorno alle piccole, granitiche patrie, fatte di severi richiami alla forte identità con tutto quel che ne consegue in fatto di pericoli per la pace (una storia a cui noi europei in fondo siamo piuttosto abituati). Ma temiamo che né gli analisti né Bil Gates si riferiscano a questa forma, come dire, filosofica di globalizzazione. La loro lingua batte dove il dente duole. Insieme al portafoglio. La globalizzazione intesa come quel grande banchetto che, cominciato quasi in sordina con Thatcher, Reagan e il trionfo dell’ideologia neo-liberista, ha trovato un potente amplificatore nella terza rivoluzione industriale e degli affidabili alleati proprio nei “campioni” di quella rivoluzione (Gates, certo, ma anche Jobs, Zuckerberg, Page, Brin) e negli strumenti da loro creati.

La loro globalizzazione è quella che sta accompagnando il mondo verso il baratro e di cui proprio con il referendum inglese abbiamo avuto una piccola, incontrovertibile prova. La loro globalizzazione è quella dell’uno per cento che controlla oltre la metà della ricchezza del pianeta, che non vuole confini solo per fare affari più in fretta e senza preoccuparsi troppo se quegli affari provocheranno un impoverimento ulteriore delle classi popolari, se il ceto medio, un tempo considerato la spina dorsale della democrazia, arranca così tanto da mandare in crisi la democrazia stessa. Quella che interessa è la globalizzazione che alimenta i suoi profitti con il vasto esercito di riserva dei disoccupati, che pretende l’azzeramento dei diritti laddove ci sono per farsi convincere a investire in determinate aree del mondo mentre con il ricatto del lavoro obbliga chi non li ha a non rivendicarli.

E’ evidente che questa globalizzazione a molti non piace e sta mandando all’aria il sistema che era stato creato dopo la seconda guerra mondiale e che aveva retto felicemente per almeno tre decenni. Se, al contrario, invertiamo l’ordine dei fattori e la globalizzazione diventa l’occasione per una distribuzione più equa di redditi e patrimoni e per una “esportazione” dei diritti dai luoghi in cui si rispettano a quelli in cui non esistono, allora il discorso cambia. Insomma, prima di decidere se la globalizzazione sia viva o morta, mettiamoci d’accordo sul tipo di globalizzazione che vogliamo. E, con tutto il rispetto per Bill Gates, quella da lui sostenuta un po’ comincia a fare schifo. Visto che è così attivo nelle campagne di solidarietà (vero esempio di capitalista compassionevole), allora abbracci l’altra idea di globalizzazione. Il mondo potrebbe veramente essergli grato.

antoniomaglie

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